La nostra vita quotidiana sta diventando sempre più frenetica: ci affrettiamo a mangiare pasti del fast food o del supermercato e usiamo i nostri smartphone per ottenere qualsiasi tipo di informazione. Perfino la moda è diventata “fast”.
Un semplice clic può portarci ovunque, e anche il modo in cui compriamo i vestiti è diventata una transizione ad alta velocità: sempre più spesso compriamo vestiti che costano meno di un pasto e li buttiamo dopo un anno.
Questo è quello che viene chiamato “fast fashion” (un po’ come fast food) e che danneggia noi e il nostro ambiente. Vediamo la differenza tra il fast fashion e lo slow fashion in termini di etica lavorativa e di sostenibilità ambientale.
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Cos’è il fast fashion?
“Andare a fare shopping” è un’attività di svago nata di recente, circa 20 anni fa. Prima di allora, si compravano vestiti nuovi solo per le necessità e i cambi di stagione e si preferiva acquistare meno vestiti e più costosi, di migliore fattura. Un po’ quella che è la base concettuale dello slow fashion.
Verso gli anni ’90, qualcosa è cambiato: i vestiti sono diventati meno costosi, i trend hanno iniziato a cambiare velocemente e lo shopping è diventato un hobby. Da qui ha avuto inizio l’era del “fast fashion”.
Quindi cos’è il fast fashion? Il fast fashion può essere definito come abbigliamento economico e trendy che campiona idee dalle passerelle o dagli outfit delle celebrità e le trasforma in capi di abbigliamento di bassissima fattura per soddisfare la richiesta costante dei consumatori.
L’idea è quella di mettere sul mercato gli stili più nuovi il più velocemente possibile. Per questo la sovrapproduzione e il consumo dati dal fast fashion sono a livelli spaventosi.
Perché è nato?
Prima del 1800, ci si doveva procurare il materiale per potersi creare un abito. Bisognava acquistare la pelle, la lana e tutti i materiali necessari per cucire, imbastire e realizzare il proprio vestiario.
Già con l’avvento della macchina da cucire, verso la metà dell’Ottocento, i vestiti sono diventati più economici, facili e veloci da produrre. In questo periodo nascevano anche i negozi di sartoria per soddisfare le necessità della classe media. In questo periodo nascevano inoltre le “fabbriche del sudore”, in cui i lavoratori di sartoria venivano sfruttati e costretti a lavorare in ambienti non consoni e sicuri.
A questo proposito è da citare il primo disastro di quest’industria: l’incendio della Triangle Shirtwaist Factory di New York nel 1911, nel quale sono morte 146 operaie, perlopiù immigrate.
Negli anni ’60 e ’70, i giovani creavano nuove tendenze e l’abbigliamento diventava una sorta di espressione personale, ma c’era ancora una forte distinzione tra alta moda e moda da strada. Alla fine degli anni ’90 e 2000, il fast fashion ha raggiunto il suo zenit.
I rivenditori di fast fashion come H&M e Zara conquistato il mercato e ha iniziato ad affermarsi lo shopping online. Questi marchi hanno preso i modelli delle case di moda più rinomate e li hanno riproposti a basso costo, così che tutti potessero comprare tutto l’abbigliamento che volevano e in ogni momento.
I risvolti negativi del fast fashion
Il fast fashion è distruttivo a livello sociale: sfrutta una manodopera spesso troppo giovane in ambienti di lavoro inadatti e non a norma. Dal punto di vista ambientale, ha fatto del fashion la seconda industria più inquinante del pianeta, subito dopo quella petrolifera.
L’industria della moda è infatti responsabile del 20% dei rifiuti idrici mondiali e del 10% delle emissioni di anidride carbonica a causa del largo impiego di pesticidi e insetticidi nelle coltivazioni del cotone utilizzato per produrre abbigliamento di fast fashion.
La moda, un settore da 2,5 trilioni di dollari, include l’uso di coloranti tessili economici e tossici ed è la seconda industria che inquina maggiormente le acque pulite dopo l’agricoltura.
La velocità con cui viene prodotto l’abbigliamento implica che sempre più persone smaltiscono una quantità enorme di rifiuti tessili.
Problematiche sociali
I giganti dello shopping sfruttano la forza lavoro in maniera non etica per poter vendere in modo veloce ed economico, come dettato dalle necessità del fast fashion.
Usando una manodopera a basso costo in posti come il Bangladesh, la Cambogia e l’Indonesia, dove le leggi sul lavoro equo sono facilmente aggirabili, gli indumenti possono essere prodotti in quantità molto grandi a prezzo nettamente inferiore: si parla che in media, ogni anno, vengono prodotti 150 miliardi di capi di abbigliamento, per una popolazione mondiale di 7 miliardi di persone.
Questo perché i lavoratori vengono pagati con un salario alquanto esiguo: un dipendente può essere pagato anche solo $90 dollari al mese, pur lavorando 13 ore al giorno senza pause.
Un lavoratore ha bisogno di almeno 3,5 volte quell’importo per poter vivere “una vita decente e con i servizi di base”.
La produzione di abbigliamento ha contribuito a stimolare la crescita nelle economie in via di sviluppo, ma uno sguardo più attento rivela una serie di sfide sociali.
Secondo delle statistiche della non-profit Remake, ogni giorno 75 milioni di persone producono vestiti per noi e l’80% è costituito da donne tra i 18 e i 24 anni.
Un rapporto del Dipartimento del Lavoro degli USA del 2018 ha trovato prove di lavoro minorile forzato in Argentina, Bangladesh, Brasile, Cina, India, Indonesia, Turchia, Vietnam e altri Paesi.
Impatto ambientale
Molte persone non si rendono conto che l’abbigliamento che indossiamo è prodotto con numerose sostanze tossiche, consuma risorse naturali della terra, contribuisce all’inquinamento delle acque e influisce sulle emissioni di gas serra.
La plastica
La moda, specialmente quella promossa dal fast fashion, influisce sull’ambiente anche attraverso l’aumento dell’utilizzo di plastica, la stessa che inquina gli oceani e i mari provocando le famose isole di plastica: secondo uno studio pubblicato su Nature, si ritiene che l’isola di plastica del Pacifico misuri circa 1,6Ml di km² e contenga 80000 tonnellate di rifiuti.
Quest’isola è più di tre volte la superficie della Francia, ma è perlopiù costituita da microplastiche, pericolosissime per la nostra salute.
Quando il poliestere viene lavato, rilascia piccoli pezzi di microfibre che aumentano i livelli di plastica nell’oceano e di conseguenza queste isole di rifiuti.
Questi microrifiuti vengono ingeriti dalla fauna oceanica, provocandone la morte.
Il cotone
Le coltivazioni di cotone sono le maggior contribuenti dell’industria della moda, e queste ultime sono svantaggiose per il benessere dell’ambiente, dal momento che utilizzano enormi quantità di acqua.
Possono volerci 18mila litri di acqua per produrre un singolo capo di abbigliamento. Quindi sì, le coltivazioni di cotone usano meno prodotti chimici, ma un quantitativo di acqua abnorme.
Il poliestere
Vogliamo parlare del poliestere? Per produrre il poliestere, l’acqua viene soppiantata dal petrolio. Circa 70 milioni di barili di petrolio sono utilizzati dai produttori tessili per realizzare merce in poliestere per l’industria della moda.
In aggiunta, sia i prodotti in cotone che quelli in poliestere sono tinti con prodotti coloranti chimici tossici. Queste sostanze contribuiscono all’inquinamento delle acque in modo devastante.
Essendo materiali perlopiù utilizzati per produrre abbigliamento di fast fashion, ecco un’altra motivazione che spinge ad optare per prodotti slow fashion.
Lo slow fashion
Veniamo ora allo slow fashion, l’esatto contrario del fast fashion. Questo termine descrive un approccio sostenibile alla produzione e al consumo di prodotti di abbigliamento.
I tessuti sono realizzati con materiali ecologici o addirittura riciclati. I vestiti sono generalmente più durevoli e di fattura nettamente superiore.
Lo slow fashion dà quindi importanza all’utilizzo di materiali di qualità e a processi di produzione che salvaguardino l’ambiente e la forza lavoro. Vengono usati sistemi chiusi per l’acqua, così che possa venire riutilizzata, ma anche per evitare che i colori vengano dispersi nelle acque di scarico.
Le fabbriche di abbigliamento di questo genere si trovano in Paesi sviluppati, che garantiscono ai dipendenti un salario dignitoso e delle condizioni di lavoro favorevoli.
The features
Fortunatamente lo slow fashion sta ottenendo l’attenzione delle persone, grazie alla crescente consapevolezza dell’impatto dell’industria della moda sull’ambiente.
Sempre più etichette stanno adottando questo approccio, dando valore all’abbigliamento realizzato secondo certi standard di produzione, grazie ai quali, il vestiario non perde le sue caratteristiche tattili e visive dopo pochi lavaggi.
Spesso i design sono più semplici e meno trendy e non passano di moda così rapidamente: in questo modo, il consumo diminuisce.
Lo slow fashion prevede anche il “riciclo” di indumenti, ossia capi di abbigliamento che vengono utilizzati e poi scambiati tra loro o venduti senza previa produzione.
Le differenze sostanziali
Fast fashion e slow fashion, come abbiamo capito, sono concetti polarmente opposti. L’obiettivo del fast fashion è produrre e vendere il maggior numero di articoli in minor tempo possibile, al fine di ottenere il maggior profitto.
Tutto ciò a scapito degli aspetti ambientali e sociali. Lo slow fashion si propone di contrastare questa tendenza, producendo abbigliamento in modo equo e sostenibile.
Per capire meglio il concetto, basti pensare al fast food e al cibo sano: il fast fast food è cibo prodotto all’ingrosso, spesso più gustoso, ma certamente non sano.
Il cibo sano, anche chiamato slow food, è il cibo prodotto a casa propria, ad esempio, in quantità essenziali e con produzioni semplici.
Il fast fashion è la stessa cosa del fast food: vestiti molto alla moda, reperibili sempre e molto economici, ma sicuramente non sani per l’ambiente e il clima.
Uno schema conclusivo:
Le parole chiave di un consumo sostenibile
Le parole chiave per un acquisto e un consumo sostenibile sono: RIDURRE, RIUSARE, RICICLARE.
Ridurre
Ridurre significa comprare semplicemente meno vestiti, se non necessari. Comprare abiti di fattura migliore, più durevoli e che rispettino l’ambiente. Compare vestiario utile, adatto per essere abbinato a numerosi outfit.
Imparare a conoscere l’azienda da cui stiamo comprando e l’etica che sostiene. Lavare l’abbigliamento solo quando necessario e stare alla larga da ciò che necessita di essere lavato a secco, ossia che necessita di un solvente organico e non di acqua.
Riusare
Non sbarazzarsi di qualcosa solo perché è passato di moda. Probabilmente tornerà di moda o comunque potrete tenerlo da parte per i vostri figli, che forse ameranno il vintage.
Se si ha vestiti nuovi o poco usati, che per qualche motivo non si mettono più, si possono vendere in negozi fisici o anche online in conto vendita, così si evita di buttare e si aiutano altre persone a trovare abbigliamento di qualità a prezzi inferiori.
Le magliette sbrindellate possono essere trasformate in stracci. I vestiti troppo lunghi possono essere accorciati dal sarto di quartiere oppure rivisitati.
Riciclare
Se i vestiti sono ancora in buone condizioni, si possono donare a un ente di beneficenza, saprà cosa farne.
Gli oggetti che non sono adatti ad essere venduti, possono letteralmente essere riciclati: alcuni negozi dell’usato e alcuni grandi negozi al dettaglio raccolgono abiti non indossabili e li vendono a società di riciclaggio tessile dove vengono trasformati in panni per la pulizia industriale o in fibre per fare nuovi vestiti.
Se sei interessato all’argomento, consiglio questo video da poter vedere su YouTube