In seguito ad ogni cambio di stagione e ad ogni novità trendy, ognuno di noi butta via qualche capo d’abbigliamento che non usa più, anche se non è sgualcito o rovinato: ecco cosa dobbiamo disimparare dal trend del fast fashion.
In media, ogni anno vengono prodotti 100 miliardi di vestiti, che superano nettamente il numero di persone che abitano la Terra (7 miliardi). I processi di produzione di questi vestiti sono la seconda causa di inquinamento al mondo…ma ne parleremo più approfonditamente nella sezione dedicata.
Con questo articolo scoprirete i lati oscuri della moda a basso costo, ossia del fast fashion, di cui tra l’altro abbiamo parlato in fast fashion vs slow fashion: la moda etico sostenibile. Non tratteremo soltanto l’impatto ambientale di questo settore, ma anche i suoi risvolti sociali.
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Gli sprechi enormi del fast fashion
Un indumento realizzato nell’ambito del fast fashion produce emissioni estremamente inquinanti durante l’intero processo di produzione.
I tessuti utilizzati per realizzare questo abbigliamento sono per la maggior parte delle volte sintetici e derivati da nylon, poliestere ed elastan. Questi materiali plastici che derivano, pensate, dal petrolio, sono i più dannosi per l’ambiente e l’ecosistema in generale.
Anche la lana, materiale naturale se puro, inquina in maniera colossale dati i lunghi e laboriosi processi di produzione.
E il cotone? Sembra così innocuo vero? La lavorazione del cotone rappresenta anch’essa una fonte inesauribile di inquinamento da parte del settore tessile.
Come ho già sottolineato nel precedente articolo sul fast fashion, per produrre un solo kilogrammo di cotone utilizzabile per abbigliamento, vengono sprecati 11000 litri di acqua. Ma non è solo questo…
…il cotone utilizzato, prima di essere raccolto, viene trattato con sostanze chimiche nocive per l’uomo e l’ambiente: pesticidi e fertilizzanti non naturali.
Il cotone naturale occupa solo l’1% dei materiali sostenibili utilizzati dall’industria della moda. Una notizia che rende orgogliosi noi italiani è che le misure che regolano l’uso di sostanze chimiche in Italia sono le più severe.
Tuttavia, non basta. Deve essere un’iniziativa globale cercare di rendere la produzione di abbigliamento il più sostenibile possibile.
Secondo settore più inquinante al mondo dopo quello petrolifero
Il settore petrolifero è sicuramente il più inquinante, ma nemmeno quello tessile scherza: il 10% dell’inquinamento è infatti dato dall’industria della moda, basti pensare inoltre, che la maggior parte dei materiali per produrre abbigliamento derivano dal petrolio.
Un altro dato davvero inquietante riguarda la quantità di acqua consumata ogni anno da questa industria: sono circa 1500 miliardi i litri di acqua usati per la realizzazione di indumenti.
Per questo, la lavorazione e i vari trattamenti con sostanze tossiche che vengono effettuati sui vestiti rappresentano il 20% dell’inquinamento idrico-industriale, producono il 35% delle microplastiche presenti nell’oceano (e anche nel cibo, nell’acqua che beviamo).
Per non parlare dell’impatto ambientale dato dai rifiuti tessili che ogni anno superano i 92 milioni di tonnellate. Questi rifiuti non sono composti soltanto da abbigliamento inutilizzato, ma anche dall’invenduto dei negozi.
Vi chiederete quale sia il problema. Be’, il problema è che per essere smaltiti questi rifiuti vengono bruciati, provocando emissioni di gas nocivi, o gettati in discariche in un accumulo di rifiuti non sostenibile.
Per ultime, sono da ricordare le tinture altamente cancerogene per l’uomo. Ma chiariamo meglio con una lista dettagliata delle sostanze nocive utilizzate per produrre abiti.
Lista delle sostanze nocive
- Coloranti azoici: sono stati certificati cancerogeni per le sostanze che rilasciano. Una direttiva europea non ne vieta l’utilizzo, ma ne limita la percentuale nel prodotto finito. Se un indumento perde colore significa che probabilmente è stato colorato con queste sostanze.
- Alogenati: sono sostanze altamente tossiche per gli organismi acquatici con conseguenze nel lungo termine. Fortunatamente in Europa ne è stato vietato l’utilizzo.
- Formaldeide: probabilmente la più “innocua”, viene usata durante tutto il processo produttivo come fissante di colori e tinte. Secondo le normative europee il suo residuo non deve superare lo 0,02 sul prodotto finito, mentre deve essere pari a 0 se l’indumento è destinato all’infanzia.
Esistono inoltre sostanze capaci addirittura di interferire con l’attività ormonale dell’essere umano, o almeno, di impattare profondamente sulla sua salute. Vediamo quali sono:
- Antiparassitari: si trovano specialmente sulle fibre naturali (come dicevo prima, ad esempio sul cotone che sembrerebbe essere così innocuo). Li usano anche per “proteggere” i capi dai parassiti all’interno dei container che viaggiano da una parte all’altra del mondo.
- Nichel: le normative europee ne vietano i residui sui capi di abbigliamento o su parti di essi che possano venire a contatto con la nostra pelle, dal momento che provocano forte allergia.
- Ftalati: ammorbidiscono la plastica delle stampe molto spesso presenti anche nell’abbigliamento per bambini. Non si legano chimicamente alle molecole della plastica e per questo possono facilmente depositarsi sulla pelle. Pare siano perturbatori endocrini che scombussolano l’attività ormonale. In seguito ad esperimenti su animali (che noi non supportiamo), l’UE ha dichiarato tossici per la riproduzione due tipi di ftalati, ossia Deph e Dpb, dal momento che riducono la fertilità maschile.
Come si identificano i prodotti slow fashion eco-compatibili?
Anche se sembra riduttivo, la prima cosa facile da fare è sicuramente valutare il prezzo del capo d’abbigliamento che si vuole acquistare: se vi piacciono dei jeans e costano 15€, potete tranquillamente dedurre che siano un prodotto di fast fashion di bassa qualità.
Parliamo di “bassa qualità” non tanto per sentirci più alla moda e importanti se compriamo abbigliamento di grandi marchi. È che molto spesso i marchi di alta moda più conosciuti sono anche più sensibili alla questione ambientale e mettono in atto campagne atte a sensibilizzare anche i dipendenti.
A volte, tuttavia, anche i marchi più lussuosi hanno un impatto ambientale gravissimo, ma la differenza viene fatta dai numeri: mentre il fast fashion a basso costo produce abbigliamento a non finire, in quantità esuberanti, quello ad alto costo produce quantità nettamente inferiori.
Un’altra soluzione è acquistare prodotti sostenibili, di seconda mano anche, riciclati. Si possono basare le proprie scelte d’acquisto su tessuti ecologici ed eco-sostenibili.
Come capire se sono ecologici? Dall’etichetta. Bisogna imparare a leggere le etichette dei prodotti che si acquistano, anche se non sono prodotti alimentari.
Quali sono i tessuti naturali ecologici:
- cotone biologico
- lino biologico
- seta
- canapa
- lana ecologica
Ma esistono altri prodotti sintetici considerati ecologici, come ad esempio:
- NewLife: fibra ecologica nata dai rifiuti riciclati di plastica
- Econyl: tessuti di nylon riciclato
- Ecoalf: tessuti prodotti con diversi materiali riciclati ecosostenibili
L’impatto sociale del fast fashion
Partiamo subito con qualche dato: sia stima che l’industria della moda sia la seconda industria più esposta al rischio di sfruttamento umano e forme di schiavitù moderna, specialmente di bambini e donne.
Nonostante sia un ambito di impiego femminile notevole, si verificano quotidianamente casi di violenza e molestie sul posto di lavoro e discriminazioni salariali di genere.
Pensate che i minori possono lavorare oltre le 12 ore al giorno, arrivando da adulti a guadagnare forse 200 dollari mensili, nel migliore dei casi.
Alcune indagini condotte dall’associazione Fashion Revolution, hanno mostrato come in Cina, più specificatamente in Guandong, le donne (spesso in realtà minori) facciano fino a 150 ore di straordinari ogni mese, ovviamente non pagate.
Il 60% di queste lavoratrici non ha la minima sicurezza di un contratto lavorativo e il 90% non ha accesso alla previdenza sociale.
In Bangladesh, i lavoratori del settore ricevono 44 dollari al mese, quando solitamente il salario minimo è di 109 dollari. Allucinante.
Ah, c’è da aggiungere che sono ben 7,4 milioni i bambini sfruttati e costretti a lavorare nel settore della moda per garantire sostentamento alla propria famiglia. Nel 17% dei casi subiscono violenze e abusi.
Fashion Revolution ci dà altri dati scandalizzanti: una ricerca condotta su 91 marchi di vestiario ha dimostrato che solo il 12% di questi ha messo in atto durante il tempo delle azioni atte a garantire un salario minimo legale ai propri dipendenti.
Da uno studio, è apparso che soltanto Gucci “vanta” di garantire al 25% dei suoi lavoratori uno stipendio adeguato e legale. Il restante 75% non è dimostrabile attraverso prove certe.
Volete una lista di qualche brand ecosostenibile più fashion? Certo che la volete! Eccola: Patagonia, Alternative Apparel, EcoAlf, Reformation, Synergy, Canepa, Cangiari, Quagga, Deadwood.
Patagonia
Questo brand è stato fondato nel 1973 negli USA, ed è conosciuta per il suo attivismo in sostegno dei giovani che si ribellano alle trivellazioni petrolifere e ad altre attività che impattano negativamente sul nostro ecosistema.
Sostiene le organizzazioni ambientali no profit che combattono per rendere il pianeta un posto abitabile e sostenibile, donando una percentuale dei guadagni. Ci si può iscrivere alle loro iniziative.
Hanno promosso un innovativo processo di tintura dei tessuti che spreca meno acqua ed energia elettrica e diminuisce sostanzialmente l’utilizzo di sostanze chimiche.
Alternative Apparel
Il loro motto è “We’re not leaving a mark, we’re making a positive footprint”. Nei negozi al dettaglio hanno abolito l’uso di borse in plastica.
Realizza abbigliamento comodo e basic specialmente da portare in casa in tutto il confort immaginabile.
EcoAlf
EcoAlf è un brand nato nel 2009 in Spagna. Si propone di non sfruttare senza criterio che risorse naturali del nostro Pianeta, che ne sta risentendo molto negativamente, per garantire un futuro sia all’ecosistema sia alle generazioni prossime che dovranno abitarlo.
Il brand mira a realizzare abbigliamento attraverso materiali riciclati come plastica, cotone, reti da pesca, pneumatici e così via.
Reformation
Il brand più hot del momento, molto in voga tra le celebrità, tra cui Gigi Hadid e Emily Ratajkowski.
Il loro obiettivo è creare abbigliamento nel rispetto dell’ambiente, in modo etico ed ecosostenibile, senza sfruttare in senso negativo le risorse naturali, ma piuttosto riciclando.
Il loro motto è “being naked is the #1 most sustainable option”.
Synergy
I loro vestiti sono realizzati in cotone organico coltivato e raccolto con metodi che impattano molto meno sull’ambiente rispetto ai metodi standard dell’industria della moda.
Vengono tinti con coloranti che non contengono sostanze chimiche dannose per noi e l’ambiente, Anche gli stabilimenti in cui vengono realizzati i loro capi d’abbigliamento devono categoricamente aderire a rigorosi standard sociali ed economici per tutelare i lavoratori.
Canepa
Questo brand punta alla salvaguardia dell’acqua e quindi alla tutela di un ecosistema sano, portando avanti un’azione chiamata #SaveTheWater.
Hanno inoltre impostato un obiettivo di risparmio energetico non trascurabile, detto “Efficienza energetica”, attraverso l’installazione di impianti fotovoltaici.
Cangiari
Cangiari in calabrese significa “cambiare”. Infatti il brand si propone si differenziarsi dagli altri marchi grazie alla sua politica di sostenibilità e lavoro etico.
Etico per l’ambiente, per il posto di lavoro e per i lavoratori ed etico per i materiali utilizzati: soltanto tessuti biologici certficati G.O.T.S.
Quagga
Quagga è un’azienda italiana, emblema dell’ecofashion nata nel 2010. Si propone di garantire il rispetto per l’ambiente, per le persone e per le relazioni umane.
Realizzano il loro abbigliamento con materiali 100% riciclati, privi di sostanze chimiche nocive, a vantaggio sia dell’ambiente sia del consumatore finale.
Deadwood
Questo brand è nato in Svezia. Recupera scarti in pelle delle concerie e le rende capi d’abbigliamento oppure accessori vari.
I capi che Deadwood realizza non sono soltanto belli alla vista, ma sono anche ecosostenibili e durabili nel tempo, facendo dei loro prodotti un vero must-have ecosostenibile!
Che cosa possiamo fare nel nostro piccolo
La prima cosa che tutti dovremmo imparare a fare è: utilizzare i nostri vestiti il più a lungo possibile, e se è necessario aggiustiamoli.
La seconda: evitiamo di continuare a comprare cumuli di abbigliamento a basso prezzo.
Se acquistiamo vestiti a basso costo, facciamo male all’ambiente e anche a noi stessi, se consideriamo le quantità di sostanze nocive che utilizzano i produttori per realizzarli.
Tra l’altro sono molto meno durevoli, perché i materiali tessili che vengono utilizzati non sono di qualità
Proviamo quindi ad acquistare meno, ad un prezzo magari più alto per garantirci la durabilità dell’abbigliamento che andiamo a comprare.
Ricicliamo i vestiti in famiglia: non vanno più bene? Regaliamoli a qualche parente stretto, di certo non rifiuterà. E se rifiuta? Diamo questi abiti in beneficenza per le persone che non si possono permettere nemmeno una t-shirt.